Sulla morte

 

483px-Willy_il_giardiniere_Simpson_-_Van_GoghLeggo l’articolo su l’ultimo ‘Venerdì di Repubblica’, 25 Ottobre. Lo faccio per motivi personali di cui non parlerò in questa sede né in altre e, fatto da non sottovalutare, perché ho un bagno straordinariamente accogliente. Il bagno delle femmine, in casa Carriego, non ha niente da invidiare al salotto buono di una casa borghese: ampio e luminoso, tende di lino ricamate a mano da amica di grande talento, quadri alle pareti, porta riviste pop art, tavolino vintage originale con zampine sottili anni ’60 e ripiano in pura formica che riporta scena bucolica, ripiani alle pareti per libri, Ipod grande  –  ché non usa più in borsa, non è cool  –   e occhiali di diversa gradazione e fattura. Quest’ultima affermazione è un falso, volevo solo fare la splendida: in realtà ci sono solo gli occhiali da presbite, che però in casa vengono definiti ‘occhiali da bagno delle femmine’: Ehi, hai visto i miei occhiali da bagno delle femmine? No. Controlla nel bagno dei maschi.

Ormai in casa viviamo in due, l’uccellino ha abbandonato il nido già da qualche anno, ma ha segnato per sempre, oltre che le nostre vite, anche  i nostri doppi servizi. Brillante studentessa di scuola materna, appese due targhette sbilenche che asserivano, in uno stampatello ancora più sbilenco ma non contrattabile: bagno dei maschi, bagno delle femmine; ora quelle targhette non ci sono più, ma è come se quella destinazione fosse rimasta indelebile. I nostri amici, se maschi, si dirigono automaticamente, al bisogno, nel bagno dei maschi; se femmine, in quello delle femmine. Alcuni maschi, particolarmente sofisticati, chiedono cortesemente se possono usufruire del bagno delle femmine, dove si trattengono produttivamente, giacché al loro ritorno in società spesso si inizia a parlare di metacronia e di estasi involontaria o di quanto Francesco sia diventato un’icona della sinistra. Ammetto che ciò mi riempie d’orgoglio che a stento reprimo, vista la mia non riconosciuta bravura di interior designer, mentre il tizio che mi gira per casa da decenni sembra non dar peso alla scelta. Ma non sono qui per vantarmi del mio bagno, che tra l’altro il solo scriverlo mi fa uno strano effetto, mi fa pensare a una sorta di devianza ( quella è una stravagante, si vanta del suo bagno: ne scrive, perfino…), ma per  via dell’articolo che ho letto con agio, a rivista spalancata sul tavolino da té vintage.

Tokio, a lezione di morte. Un prete buddhista dà lezioni di morte a giapponesi abbienti sostenendo che cambierà il loro approccio all’insolubile problema di ciascun essere umano, ovvero la propria morte. Coinvolgendoli in un gioco di ruolo devastante ( si devono identificare in un tumorale il quale con l’avanzare della malattia, per poter sopravvivere, deve rinunciare a delle ‘cose’) consegna loro cinque foglietti di diverso colore, ognuno dei quali identificherà, nell’ordine: cinque cose materiali, cinque cose della natura, cinque attività fisiche e via dicendo. Ma i foglietti fotti popoli sono quelli gialli, – il mio colore preferito, non a caso il bagno delle femmine è giallo, per dire – che indicano le cinque persone più amate. Facile rinunciare ai massaggi e alla palestra, nevvero? Facile rinunciare alla Pugeot nuova di zecca con touch screen, nevvero?  Dev’essere davvero facile, giacché un paperone giapponese rinuncia senza colpo ferire alla BMW nuova di zecca e un altro al sesso. Ma ritorno alla quistione, che per il giornalista e quindi per il prete, è essenziale: i giapponesi non hanno messo tra le cinque persone più care parenti stretti né amici di una vita. E qui vorrei sapere: e di che ti meravigli? Se hai solo cinque posti liberi per parenti e amici sei più sociopatico di me, vivaddio. Sei tu il prete: gli altri sono giapponesi ricchi, magari hanno famiglia numerosa e pure una geisha che amano alla follia. Ma tant’è. Il prete buddista è peggio di un kapò ebreo e non sente ragioni: il gioco di identificazioni costringe gli allievi prima a liberarsi di antichi kimono, poi del mare, poi del cibo, finché. Finché non rimangono solo i biglietti gialli. Bene, sebbene in fase terminale, i giapponesi iniziano a scartare anche il giallo. Che cialtroni. Non che io sia razzista, non ho nulla contro i cagliaritani, per dire: ma dei giapponesi ho sempre diffidato.  Così, in un mare di lacrime e sudore simulato, sacrificano perfino i fratelli: rimangono solo coniuge e figlio.

Bene, pare che nessuno abbia finito il gioco. Sussurrando un flebile ‘non voglio morire’ i nostri si arrendono e giurano sulla tragicità dell’esperienza che mai più ripeterebbero. Poi il prete dice loro che hanno capito che bene e male, vita e morte sono inscindibili e che hanno compreso il principio base del pensiero buddhista: che tornassero sereni alle loro attività quotidiane ma senza scordarsi di passare prima alla cassa, grazie.

Un pensiero su “Sulla morte

  1. cinque foglietti monocolore, il mio io daltonico, uno dei numerosi abitatori delle mie meningi (io che qui scrivo ho visione policroma e creatività acclarata) avrebbe avuto difficoltà nella distribuzione di competenze analogiche affettive.
    nessunissima, invece, a leggere a ritroso post esilaranti e speziati come questi che qui trovo, Carriego, ottimo bibliobar, da ritornarci spesso, in pausa esistenziale.
    ciao
    luna

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